venerdì 19 giugno 2015

La dura vita sociale dell’archeologo: lingue antiche e magneti da frigorifero

“Che mestiere fai?”
“Sono un’archeologa.”
“Oh! Beeeello! Ho sempre avuto un debole per l’archeologia e le antichità! Senti ma... è vero che Carlo V a colazione mangiava fiocchi d’avena e latte di bufala??”
“Ehm, veramente non saprei.”
“Come non lo sai?!?” l’interlocutore sembra turbato e perplesso: gli ho forse rifilato una bugia per farmi bella?
“Sai, io sono un’archeologa specializzata nel settore vicino orientale.”
L’interlocutore estrae dalla tasca un oggetto dall’aspetto antico: “Questo apparteneva al nonno del nonno del cugino di quarto grado della madre di mia moglie. Vedi vedi? Le incisioni, riesci a riconoscerle? A quale civiltà appartengono? (Così su due piedi mi sembra un coccio del paleolitico europeo...) In che anno sono state incise? A che ora? Ma secondo te l’artigiano era mancino?”
Potrei spiegare all’interlocutore che, per analizzare al meglio quel reperto, sarebbe stato di gran lunga auspicabile sapere in che luogo l’avo, perso nei rami dell’albero genealogico di sua moglie, aveva trovato il reperto. E che a volte servono cataloghi di fotografie e registri di scavo, per identificare correttamente un oggetto. Ma no, perché dargli queste preoccupazioni?
Mi schiarisco la voce, gonfiando il petto come una ranocchia: “Sì... eh be’... in realtà ha l’aria di essere un manufatto preistorico, forse proveniente dall’Europa del Nord. Però, vedi... io non sono un’esperta di reperti, sono un’epigrafista. Per essere esatta, sono un’assiriologa.”
“Assiro che?” mi guarda di nuovo con l’aria dubbiosa di uno che ha paura di essere imbrogliato.
“As-si-rio-lo-ga. Sono una traduttrice di lingue antiche. Per la precisione, di una parte delle lingue scritte in caratteri cuneiformi. Hai presente quella roba antichissima con tutti i triangolini e le stecchette?”
“Sì.”
“Ecco. Traduco quella roba lì. Accadico, ossia babilonese ed assiro, un po’ di ittita, sumerico...”
“Ooooohhhh!!! Forte! E senti, come si dice in sumerico: scusi mi può portare un caffè?”
Eh no, questo è troppo! Basta, getto la spugna e perdo la pazienza. Almeno lo sa, il mio interlocutore, che il caffè è americano? E quindi, a meno che in antico non ci fosse una qualche ditta di import-export transoceanica di cui ancora non abbiamo scoperto traccia, i Sumeri proprio non potevano ordinarsi un caffè al bar?!

Taglio corto, ormai senza speranza: “Non lo so.” Però saprei come scagliargli contro un anatema, all’incirca così:

“Bilgameš.e
Nam.hé.ba.da.kur.e.Ø”
Ovvero: possa Gilgamesh maledirti!

“Ah, va bene.” la delusione è evidente sul volto dell’interlocutore, come ad affermare: non sai proprio niente! Che razza di archeologa sei?
Razza scribacchina, topo di biblioteca - anzi talpa, dato il considerevole numero di diottrie mancanti al mio apparato visivo -, traduttrice di lingue che nessuno parla più da millenni, quarta scrivania a destra; per reclami e rimostranze sono disponibile il venerdì dalle cinque alle sette, grazie.
Oggi sono lamentevole, come direbbe una mia cara amica. Perché?
Perché il mondo non capisce che un archeologo non è un animale onnisciente, mentalmente fruitore di ogni singola pagina di storia, antropologia, etnologia, glottologia e “repertologia” dell’umanità. Per fare un esempio pratico: chiedereste mai ad un medico neurologo di sistemarvi una gamba fratturata? Per non saperne nulla, personalmente preferirei rivolgermi ad un ortopedico, voi che dite?
Purtroppo, questa semplice regola di buon senso, non si applica a gran parte della scienza, per cui ci ritroviamo frotte di addetti ai lavori angariati da domande per le quali non hanno una risposta immediata; sebbene, con un po’ di pazienza, potrebbero trovarla, sono pur sempre ricercatori. Perciò: clemenza, prego! Anche gli scribacchini, i quattr’occhi e i nerd desiderano una vita sociale.
E cosa pensereste di me, se vi raccontassi quanto segue...
Amo viaggiare. Chi mi conosce di persona, o segue le mie vicissitudini mediatiche da qualche tempo, lo sa già. Sono dinamica per natura e dormo con la valigia sotto al letto, sempre pronta a prendere il primo treno, traghetto, aero velivolo per destinazione X.
Lo scorso anno, un ameno articolo sulla rivista Medioevo (n. 205 febbraio 2014), risvegliò in me la sopita passione per la civiltà scandinava dei Vichinghi, illustrando le bellezze di una mostra che si sarebbe tenuta a Londra prima e a Berlino poi. Mi prudevano le mani: messo da parte il giornale, impugnai il mio fido smartphone - col quale sono una secchiona, smanettona pericolosa - e in meno di venti minuti ero pronta per volare alla volta di Londra.
Oh ed ah!! Quante meraviglie alla mostra allestita al British Museum; commozione a gogo per i ricordi delle mie ricerche di quindicenne sulla mitologia nordica ed il norreno, uno degli antichi idiomi parlato dai Vichinghi, risalente all’incirca all’Anno Mille. Snorri Sturluson, il monaco islandese che nel XII secolo scrisse l’Edda in Prosa - una raccolta parafrasata di buona parte dei poemi mitologici vichinghi -, mi teneva per mano e camminava al mio fianco da una teca all’altra, corridoio per corridoio. Da Londra, per arrivare alla Scandinavia il passo sarebbe stato breve. Ma non quell’aprile dello scorso anno. La terra natìa dei Vichinghi avrebbe aspettato un’occasione migliore per essere visitata.
Emozionata ed esaltata, feci una velocissima pausa pranzo, per poi tornare ad immergermi nelle ricchezze del British. Andai a salutare Sargon II e i suoi rilievi del Palazzo Reale di Khorsabad, nel padiglione vicino orientale - e a questo punto ringrazio gli archeologi di metà Ottocento, che almeno hanno salvato qualcosa delle civiltà che ho tanto amato ma che la follia, nata dall’ignoranza e dalla paura, oggi sta radendo al suolo. Ninive, Hatra. A chi toccherà la prossima volta?

Un’ammiccata alle bellezze dell’Antico Egitto e alla Stele di Rosetta - una scribacchina non può esimersi dal rendere omaggio alla pietra miliare della riscoperta e decifrazione del sistema di scrittura geroglifico; perdonate il gioco lito-semantico.



E per finire, una passeggiata nella galleria delle origini del grande Impero Britannico. Secoli di storia scorrevano davanti ai miei occhi, di fruitrice comune stavolta - avete presente? Medioevo inglese... io topo di biblioteca assiriologo...
Gioielli, calici in oro, vetri cloisonné e pietre preziose, vesti decorate.

Indescrivibili pezzi di scacchi in avorio di zanne di tricheco. Questi qua, per la precisione…


 Ora, sulla laconica targhetta della teca c’era scritto: gioco degli scacchi, Scozia, XII secolo. Avrei potuto io mai sapere, dalla dicitura così avara di informazioni, che quegli scacchi furono ritrovati nel 1831, da un contadino, su una spiaggia scozzese delle Isole Ebridi, chiamata Uig Bay? Che ne furono trovati numerosi pezzi, provenienti da almeno quattro scacchiere, e dopo aver riposato per secoli sotto la sabbia furono venduti e sparpagliati per i quattro angoli del mondo - ... a proposito, ...

“lugal.anub.da.(k)limmu.bi.a(k)”
Ignorando il primo simbolo in alto a sinistra,
“lugal” che significa “re”, ora sapete come
appaiono i quattro angoli del mondo in sumerico

Finché il British e il Museo Nazionale di Edimburgo non ne fecero due collezioni più cospicue e correttamente conservate.
Non sono una chiromante. Non posso sapere ciò che non ho studiato.
Dunque quel giorno mi limitai a fare la turista. E a comprare un paio di magneti da frigorifero al “bookshop” all’uscita del British Museum, che andassero a rimpinguare la mia collezione, una volta tornata a casa.
La morale?

Lasciate che gli scribacchini, i ricercatori, i secchioni vivano in pace la propria esistenza. E fate loro comprare tutte le calamite da frigorifero che desiderano, anche se lì per lì non sanno di aver preso la riproduzione in miniatura dei famosissimi Scacchi di Lewis!










sabato 6 giugno 2015

Parole del Giorno
Computer volanti e banane maculate: un viaggio nel fantastico mondo di Vaio

C’era una volta un computer della Sony.
O meglio, c’era una volta una linea di computer della Sony, ditta giapponese di elettronica, che prendeva il nome di Vaio. Io, me medesima insegnante itinerante, avevo una passione smodata per tale prodotto informatico. Tanto che dal 2004 ad oggi tutti i miei pc sono stati Notebook Vaio con uno schermone da ben diciassette pollici: dei veri e propri, pesantissimi, dinosauri di silicio.
Ahimè, un brutto giorno, il mio saggio padre mi telefonò ed esordì: “Ludo, lo sai che la Sony ha annunciato di voler smettere di produrre computer? Quindi inizia a guardarti intorno, perché dovrai cambiare modello”.
Tragedia.
Panico.
Nostalgia.
Un’epoca che finiva. Un altro piccolo mondo che si chiudeva; così com’era stato per il lettore mini-disc (meteora tecnologica paragonabile al fenomeno del super vhs, del super 8 e del DAT) e per i nastri magnetici, le musicassette, le videocassette e i floppy disk.
Triste fu l’alba, quando l’ultimo Vaio uscì dalla catena di produzione della Sony.
Eppure... non tutti i Vaî - grafia corretta del plurale “Vaio” - sono estinti.
Colta dal fulmine a ciel sereno, decisi di uscire dal mio ufficio a rinfrescarmi le idee. Già che c’ero, mi fermai anche dall’ortolano di fiducia, a comprare due banane e qualche kiwi. Non c’è niente di meglio del fare il pieno di sali minerali e vitamine, per abbassare lo stress e schiarirsi la mente. Con l’aggiunta di un bel paio di scarpe comode.
Iniziai a camminare, senza una meta precisa, in cerca di un’illuminazione; di un segno; o di un computer che soddisfacesse le mie assurde pretese.
Girovagai in lungo e in largo, sbucciando banane e pelando kiwi; mi sentivo una specie di Forrest Gump, podista ramingo per gli Stati Uniti. Solo, in versione femminile ed europea.
Nel mio viaggio non ispirai l’inventore degli “Smile”, né l’uomo che vendeva aforismi adesivi da incollare in ogni dove. Forse feci qualche lezione. Magari insegnai una lingua o due. O illustrai le bellezze di civiltà scomparse - ah... sospiro di nostalgia -. Finché, una notte, mi trovai nientepopodimeno ché... in Siberia. Meno quarantasei gradi d’inverno. Per fortuna, come ormai avrete capito, questo è un racconto di fantasia - almeno in parte - e il mio viaggio avrebbe potuto portarmi ovunque. Ma perché proprio in cima al mondo, a pochi chilometri dalla linea virtuale del Circolo Polare Artico? Chissà. Ero desiderosa di una risposta alla mia nuova condizione di orfana informatica. O semplicemente alla ricerca di una consolazione. E come in ogni favola che si rispetti, ne trovai. Camminando fra alberi in boccio, nella parte della Sibera in cui ancora cresce la foresta, al chiaro di luna vidi delle piccole creature volanti. Non erano pipistrelli perché non battevano le ali. Apparivano più come scoiattoli muniti di deltaplano. Difficile guardarli da vicino: si sa, i roditori sono creature molto diffidenti. A chi porre domande per saziare la mia curiosità? Il mio smartphone è notevole, ma nella foresta siberiana proprio non c’è campo e San Google non poteva corrermi in aiuto.
Ed ecco che in scena facciamo entrare il fantasma dello zar Nicola II  - mi sovviene l’Amleto e il fantasma del Re di Danimarca suo padre... ma no, questa è storia per un altro giorno... -. Mi avvicinai con la circospezione e il rispetto, che nascono spontanei di fronte ad un uomo di tale estrazione sociale, e domandai: “Maestà, sapete dirmi cosa sono quelle piccole creature che si intravedono saltare e fluttuare fra i rami?”
Nicola II mi guardò altezzoso, come fossi la scema del villaggio e disse: “Sono scoiattoli volanti siberiani.”
“Oh.”
Si lisciò il mantello dell’uniforme imperiale: “La loro pelliccia, il vaio, ha dato vita al mio mantello”. Senza aggiungere altro, si allontanò. I suoi passi non fecero rumore sul manto umido del bosco. Per forza: era un fantasma in un viaggio di fantasia!
Scoiattoli col vaio... mah... almeno quelli non sarebbero usciti di produzione, ringraziamo madre natura.
Ancora perplessa per la scoperta, presi una banana dalla mia borsa - c’è chi mi chiama “Bertuccia”, per la mia attitudine a mangiare abitualmente questo frutto. Sarà che lo trovo molto pratico e ne apprezzo la ricchezza di fibre, zuccheri e potassio, per cui lo prediligo.
La mia banana - meno male che ancora nessuno mi ha associato ai Minion del film di animazione Cattivissimo me... - era piena di puntini neri e un po’ molliccia, sebbene la consistenza non fosse affatto sgradevole. La guardai comunque dubbiosa: dovevo aver camminato davvero a lungo, se la frutta aveva fatto in tempo a maturare così tanto. Feci per sbucciare la banana, quando dagli alberi spuntò di nuovo il fantasma di Nicola II.
“Cosa c’è stavolta?” gli chiesi, con meno salamelecchi. Non mi piace essere trattata con alterigia, neanche da un imperatore.
“Sai cosa stai per mangiare?” mi rimbeccò sprezzante.
“Un banana.”
“Lapalissiano. Tzé. Tutto qui quello che sai?”
“Una banana matura?”
“Appunto. Una banana vaia. Tutto ciò che è maturo e maculato di nero, marrone o di un colore scuro è vaio.”
“Ma va? Grazie. Non lo sapevo.”
Nicola II sospirò sconsolato: “Prego.”
Ci scambiammo un cenno del capo e stavolta svanì in una suggestiva nube di bruma e vapore. Molto teatrale - sta’ buono Amleto, sei articolo per un altro post... -.
Il mio sguardo oscillò per qualche istante fra la banana vaia che avevo ancora fra le mani e le piccole creature che squittivano forte, ma planavano in silenzio fra un ramo e l’altro. Piccole ombre scure appena visibili alla luce bianca della luna.
Forse non avrei più avuto un Sony Vaio. O un computer della Sony. Ormai il mio lettore mini-disc resta a prendere polvere in un cassetto. E la scatola di floppy disk che conservo nell’avita dimora di Martinsicuro non disporrà più di un “drive a:” per riportare in vita i dati in essa contenuti.
Il mio walkman ha smesso da tempo di far girare chilometri e chilometri di nastro magnetico, per riempire di musica le giornate di un’adolescente un po’ solitaria.
Ma almeno, tutte le volte che vorrò un vaio, potrò comprare un kiwi molto maturo pieno di macchie scure. O potrò far invaiare una banana. E magari penserò a quegli adorabili scoiattoli che svolazzano in Siberia, con un manto pregiato degno di un imperatore umano e una tenuta da base jumping che renderebbe invidioso perfino Bruce Wayne!


venerdì 22 maggio 2015

A volte ritornano...

Silenzio in sala.
L’annunciatore si alza, l’occhio di bue lo illumina, figura colorata e sgargiante contro il pesante sipario di velluto. Un attimo di esitazione simulata, corre con lo sguardo sulla platea, come a voler controllare che non manchi nessuno.
Prende in mano il microfono, si schiarisce teatralmente la voce.
“Signore e signori, che ci crediate o no, a volte ritornano…”
Attimo di suspense. Chi ritorna? Da dove? E perché? Cos'era accaduto in precedenza, perché quei Ritornanti fossero costretti a ritornare in un secondo momento? E come ritorneranno?
Nota a margine – o così sarebbe se avessi voglia di impaginare questo documento come si deve… ma no, oggi fa troppo caldo –: nelle tre righe del paragrafo precedente abbiamo utilizzato appieno quelle che in inglese vengono definite le “WH questions”, il vademecum di ogni giornalista, di ogni inchiesta; nonché di ogni studente delle scuole superiori che abbia dovuto misurarsi con lo studio di tale lingua. Volete saperne di più sull’inglese e le sue strade? Aprite questa porta.
Torniamo ai Ritornanti. Essi ritornano.
Facciamo un gioco: lasciate nella zona dei commenti, qui o su Facebook, tutti i pensieri che vi ispira la frase “A volte ritornano”. Dato che, ne sono certa, non c’è persona italiana o quasi che dal 1981 non abbia usato almeno una volta in vita propria questa espressione.
1981, voi chiedete? Tutto a suo tempo.
Da dove si ritorna? Da venti strade diverse, costruite in anni difficili, in anni facili, in anni in cui si crede in un progetto e anni in cui si è tentati di gettare la spugna. Momenti nei quali, per mettere il pane in tavola – giusto per utilizzare un altro modo di dire oramai desueto nella dialettica, ma quanto mai attuale nella pratica –, si vendono i propri racconti a riviste erotiche per maschietti. “E pensare che ci avevo quasi creduto, di essere uno scrittore come si deve.”
Venti storie che attraversano la vita di una persona; di cento; di mille. Di ognuno di noi, che possiamo benissimo riconoscerci in questa o quella pagina. Anche se ogni immagine è una metafora di qualcosa, non un resoconto verosimile. Andiamo, non credo che nessuno qui abbia mai avuto un giardiniere che lavora nudo, felice possessore di una singolare dentatura pelosa (sì, sì, avete capito bene). Forse avete avuto la sventura di attraversare un Lovecraftiano paese fantasma, con una chiesa sconsacrata in cui dorme una creatura indescrivibile, o un bel campo di filari di mais? Ah, quanto ci fanno pensare all’estate! Sì, ma guardatevi dal passeggiarci in mezzo per fare la conoscenza di Nostro Signore Colui che cammina dietro i filari.
E chi non può annoverare almeno un corteggiatore indesiderato? Quel ragazzo del liceo, dell’università, il collega inopportuno, che non dice mai la cosa giusta, non ne azzecca una e mette tutti in imbarazzo non appena entra nella stanza. Triste amante mai corrisposto.
Se una sera di primavera avessimo voglia di fare due passi e calasse la nebbia? Io presterei molta attenzione, fossi in voi.
Ecco, coloro che tornano – come i bulletti della scuola, che nel lontano 1965 avevano commesso un crimine imperdonabile… signori miei, riflettete bene prima di dire che la violenza giovanile perpetrata oggi non ha precedenti: leggete e fatelo con attenzione, i vostri orizzonti ne usciranno molto ampliati – … coloro che tornano, dicevo, attraversano tutte queste strade. Secondo il loro creatore, Stephen King, il padre dell’antologia “A volte ritornano” – titolo della prima edizione italiana, uscita nel 1981 –, i Ritornanti viaggiano nella paura. Ed egli ci invita a prendere la sua mano, come un moderno Virgilio – non me ne abbia Dante per il paragone –, e a seguirlo in questo viaggio da incubo. Un incubo vero e proprio, magari di una guardia giurata o un portinaio annoiato, che si è addormentato durante il turno di notte. Ebbene sì, considerando che il titolo originale della raccolta è proprio questo, “Night Shift”, turno di notte.
Delusi? Milioni di battute ironiche e sagaci made in Italy, rovinate da una traduzione troppo fantasiosa di un titolo!
Suvvia, non restiamo così amareggiati. Una traduzione è un atto di magia. Un viaggio a sua volta. Andare nell’aldilà linguistico di un’altra nazione e ritornare nell’aldiquà con una storia da raccontare. O, come nel caso di un’antologia di racconti, con numerosi brevi aneddoti: immagini, fotografie da appendere in bacheca o dentro una cornice. In memoria del bel viaggio compiuto.
Ed eccoci qui. A volte ritornano.
Nuovo anno, nuovo numero alla fine del 201…
2015
Pagina nuova. Sono tornata. Come sempre, per servirvi.
Per i nuovi avventori, se avrete avuto la pazienza di arrivare in fondo a questo testo, vi dico: benvenuti! Chiedete di me qui in giro. Mettetevi comodi. Curiosate. Spero che troverete gradevole il mio angolo di amenità, cultura, linguistica, musica e storie.
Per voi che con fiducia avete atteso il mio rientro: salve a voi! Ben rivisti! Di nuovo in pista.
Ma adesso: silenzio. Il presentatore ci guarda male, stiamo facendo confusione con le nostre chiacchiere. Taccio.
Si schiarisce la voce, prende un bel respiro.
“Signore e signori, a volte ritornano. Per insegnarvi, dilettarvi, intrattenervi…


Il sipario si alza.